Gabriel Garcìa Màrquez
Dell'amore e di altri demoni
Il romanzo in parola ha il pregio di contenere in sé l'intero universo di Màrquez e cioè la struttura sociale di epoca Sei/Settecentesca, con i suoi ammennicoli e recessi, quale essa era nell'America latina dell'epoca in cui l'Autore la descrive. Ma la caratteristica saliente che è anzi la più rilevante in questo romanzo è, a differenza che in altri capolavori dell'Autore, il coacervo di umanità rutilante, dignitosa benché priva di mezzi, benchè priva di restrizioni morali, ad esempio in materia di sesso, che essa umanità fa da cornice agli avvenimenti non perché vi partecipa ma perché impersonalmente determina le vicende che pian piano si dipanano sotto gli occhi di un lettore che, se a digiuno di qualche lettura sui problemi sociali del Sud America da Colombo in poi, potrebbe rilevare un procedere confuso, un'andirivieni di quadri narrativi che spesso discordano l'uno dall'altro, insomma qualcosa senz'altro potente, di immagini, di colori, di espedienti; ma povero di trama, e anche molto distante da altri lavori.
Ma come si è accennato, la realtà piacevole, il cui tepore decadente favorisce gli appetiti, non solo quelli di pancia, ma anche altri di meno nobile natura e tuttavia così invitante, nasconde orrori come l'incesto, la follia, le irreparabili crisi spirituali e l'esclusione sociale. Se però si tiene fede a coloro che, qualche secolo dopo l'epoca che fa da sfondo alla storia di cui si parla in questa breve nota critica, iniziarono a considerare che la cultura europea avesse in qualche modo "squinternato" l'equilibrio dei popoli nativi del Centro Sud America, allora bisogna a mio avviso analizzare la trama del romanzo ponendola a confronto, non dirò con un'affresco, il quale per sua stessa fattura è condannato a disfarsi nel tempo; ma come un'acqua forte, o una sostanziosa "litografia", nella quale è impresso il peccato originale di noi Europei nei riguardi dei nativi.
Se peccato non vi fosse, o se l'Autore non volesse parlare di questo, allora il romanzo sarebbe a mio avviso strutturato in maniera assai differente, ma non lo è. Si consideri ad esempio il fenomeno dello della schiavitù, rappresentato per come essa schiavitù era a quei tempi, i tempi che l'Autore racconta, e il giudizio del tutto negativo che oggi si prova e che deriva dal ricordo che di tale infausto mercimonio rimane anche nel sentire dell' "uomo comune". Da come ne parla l'Autore si prova tuttavia la netta sensazione che all'epoca in discorso lo schiavismo fosse niente altro che una fonte di guadagno e che i profittatori di un'organizzazione socio/economica che consentiva tale fenomeno, perché su di esso si sorreggeva, non siano da ravvisare soltanto nei negrieri europei o statunitensi, ma anche negli stessi schiavi, per lo più africani, che a volte, come si legge in un episodio del romanzo, neanche erano accompagnati al "mercato" dai lenoni, perché alcuni di essi schiavi godevano del privilegio di vendersi "da soli" e intascare il prezzo. Ecco: la schiavitù. Ciò che si potrebbe domandare a sé stessi, uomini del terzo millennio, sarebbe se la schiavitù non sia un effetto sempre del peccato originale della colonizzazione delle Americhe da parte di noi uomini europei in altri tempi e in altre epoche.
Tralasciando di considerare la schiavitù quale piaga sociale direttamente ricollegabile alla scoperta delle Indie Occidentali, altra domanda che appare legittima è da un lato il concetto di "missione cristiana", sempre in America latina; dall'altro il concetto di esclusione sociale, elementi di forte destabilizzazione del consesso umano e delle proprie regole, cioè delle regole consuetamente osservate che furono dapprima cancellate e successivamente sostituite da altre ad opera dei coloni occidentali. In primo luogo scopo delle missioni cristiane in quei luoghi fu sempre dal lato attivo, quello di inviare "altrove" ecclesiastici e suore non eccessivamente graditi presso la Corte papale e per i più vari motivi; altro motivo, meno incidente, fu quello di diffondere in quei posti "dimenticati da Dio" il messaggio evangelico e conseguentemente il modo di condurre la vita che è tipico di noi Cristiani. Per quanto invece riguarda il concetto di esclusione sociale, le vicende che si dipanano nel romanzo, che come detto più su, parla di schiavitù ma lo fa con naturalezza; di monachesimo, ma con rassegnazione; di esclusione sociale ma come se tale fenomeno fosse perfettamente naturale, fondano l'esclusione sociale su una base di conoscenze scientifiche e tecnologiche che rendevano noi europei non tanto turpi da fare strage di nativi, quanto piuttosto di causarne la morte per malattia. Tutto ciò semplicemente negando agli indigeni - facili prede di malattie gravemente disabilitanti, diffuse dai coloni europei, e che se non combattute per tempo, potevano essere addirittura letali - ogni possibile cura, come ad esempio per il "colera". Ovviamente la tecnica di scrittura che l'Autore usa è tale da spingere all'indietro le lancette di un'ideale orologio per collocare le brutture ovattate in un tempo /non tempo, nel modo di una fiaba per bambini che, se anche a tratti può spaventare, ha comunque un lieto fine pur essendo priva di un messaggio morale da trasmettere al lettore. Màrquez fa proprio questo: racconta in maniera fiabesca ciò che, altrimenti, ad esempio se la storia di cui qui si parla fosse una semplice "cronaca", lascerebbe al termine della lettura, "con l'amaro in bocca". Il fine cui la storia giunge tuttavia, non può essere considerato quanto meno "sereno" come lo è per il Florentino Ariza di "Amore ai tempi del colera", che nelle battute finali si fa beffe della vecchiaia perché ha trovato l'amore; ma intriso di un che di malsano, che inorridisce e che non può concretarsi in una semplice battuta di spirito in quanto gli eventi narrati non lo consentono. Così l'amore tormentato tra il novizio Caijetano Adaura e l'educanda lentamente portata alla morte, cioè Sierva Maria, la ragazzina che le gerarchie cattoliche del posto considerano "posseduta" da un demonio solo perché "è una donna libera", non è coronato da un' onesto matrimonio a causa delle rimostranze del padre di lei, il Marchese, ed anche delle suore del convento che si oppongono fermamente a riconoscere che al di là di ogni apparenza, la signorina Maria è perfettamente sana di mente.
E' un romanzo pessimistico, questo di Màrquez, un romanzo nel quale il "suo mondo", il mondo dell' Autore, piange le proprie piaghe per essere stato internamente reso "schiavo" da parte di popoli che del colonialismo non hanno mai fatto strumento di progresso sociale, ma al contrario di sottomissione e sfruttamento. I guai di cui Adaura parla col medico ebreo, ossia i guai dell'infelice Maria, sono originati da un tale guazzabuglio di credenze che tanto non battono il chiodo, fin quando non divengono necessarie per tuelare l'ordine sociale. A questo proposito lo Scrittore parla di rimedi spirituali, come possono essere gli esorcismi; rimedi medici, come la cucitura alla caviglia per scongiurare che Maria contragga la rabbia; rimedi pagani, come le molte fatture e altri primitivi intrugli che vengono applicati alla ragazza dagli schiavi negri che abitano nella casa paterna, e così via.
In rapporto all'epoca attuale e volgendo lo sguardo alla situazione dei luoghi che Màrquez ci racconta, alla loro situazione presente, ciò che coglie lo stupore di noi occidentali, è sempre la stessa congerie di elementi, che se non sono la esatta riproduzione di quelli descritti nel romanzo, ne sono tuttavia una perfetta evoluzione.
Ovviamente un tributo a Màrquez è d'obbligo. Ciò in cui questo scrittore è Maestro assoluto, un po' come lo era il Nostro Sergio Leone nei suoi lungometraggi, è coprire di uno smalto dorato e fiabesco un' inferno sociale che deriva dalla commistione violenta e priva di regole tra popoli e culture le più diverse, un contesto che ripugnerebbe anche all'ultimo dei cronisti, se questi dovesse raccontarlo per come è. Ma d'altra parte mi pare di poter dire che pochi sono coloro che riescono a sognare il Paradiso mentre intorno brucia un Inferno. Màrquez dimostra di saperlo fare, in questo più che in altri lavori, e più di quasi tutti coloro che scrivono per professione.
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